giovedì 24 gennaio 2013

LO SCRITTORE E IL SUO DOPPIO: un giallo psicologico



GIOCA sull' identità e sulla doppiezza dell' io l' ultima prova narrativa di Gianfranco Pecchinenda, docente di Sociologia della conoscenza alla Federico II e preside della facoltà di Sociologia. Un tema caro alla letteratura, specie a quella del secolo scorso. Un tema che Pecchinenda contamina con gli argomenti dei suoi studi, con le nuove tecnologie della comunicazione, in particolare. E l' identità del soggetto diventa l' abusato profilo su Facebook. Più di uno, perché le identità possibili on line sono quante si ha la pazienza di costruirsene, o quanto qualcun altro ne costruisce per conto del soggetto. Profili talmente credibili, talmente "vivi" nonostante si tratti di una vita immaginaria, da considerare omicidio la soppressione di uno di essi, la cancellazione di un profilo. Un omicidio attorno al quale investigare, nel libro di Pecchinenda, che è infatti anche un giallo. Un giallo psicologico. Il colpevole? Appena scontato che si tratti dell' autore stesso. Il breve (94 pagine) romanzo di Pecchinenda si intitola "Essere Ricardo Montero" e Montero, protagonista della prima parte, racconta la sua scelta di essere scrittore: più difficile da scegliere che da essere. Perché si tratta di una decisione, quella d' esser scrittore, «radicale e assoluta». Essere scrittore, scrive Pecchinenda, «significa obbligarsi a stare soli, seduti e in silenzio... nel momento in cui uno si è convinto di essere uno scrittore ha più della metà del cammino già fatta». Questo Pecchinenda dice nella finzione letteraria, mentre nella realtà spiega che «la decisione di mettermi alla prova come scrittore scaturisce dalla convergenza di due diversi percorsi. Il primo è legato al mio mestiere di ricercatore e docente di sociologia. A lungo andare, i miei tentativi di spiegazione dei comportamenti umani si sono quasi naturalmente incontrati con le geniali intuizioni derivanti dalla letteratura e dalle grandi narrazioni artistiche. Il secondo percorso è legato invece a motivazioni di carattere più personale: la scomparsa di mio padre mi ha a un certo punto dato una sorta di scossa, portandomi a decidere di provare a oggettivare le mie riflessioni (e se vogliamo anche il mio sentire più intimo) nella scrittura. A partire da allora ho cominciato a sentirmi uno scrittore, e a vivere, pensare e agire in quanto tale». Così il doppio è anche quello che si sceglie, non solo il profilo "letto" dagli altri, e, nel caso di Pecchinenda, la finzione letteraria diventa realtà quando ribadisce: «Chi vuole fare lo scrittore, essere uno scrittore, deve innanzitutto inventarsi "un altro", un individuo che si assumerà il dovere di scrivere le sue opere». E pazienza se di quell' altro si finirà «prima o poi per diventare schiavi». Difficile distinguere, letto il libro, le parole del Pecchinenda autore da quelle del suo Ricardo Montero.

articolo di Bianca de Fazio 

fonte: La Repubblica

domenica 4 novembre 2012

OMBRE DIGITALI

Una fotografia può essere una gran bugiarda. Tanto più se è ingiallita dal tempo. 
Di per sé l'atto di immobilizzare l'essenza di una persona intrattiene una relazione quanto meno ambigua con la realtà: non sappiamo cosa resta fuori dal quadro e ciò che è inquadrato non può sfuggire al lavorio del tempo.
Ma va bene così: quando ci mettiamo in posa lo sappiamo che la realtà è pi ù complessa e sfumata di un semplice scatto. Chi prepara la messa in scena lo sa ancora meglio.

Resta da capire, quando tutto sarà stato detto e fatto, cosa parlerà di noi al resto del mondo. 
Una vecchia foto? Un video? O qualcosa di più cospicuo, magari un diario? O forse un diario di pensieri affidati al nostro alter ego preferito che, sotto il cappello di uno pseudonimo, saprà esprimere senza peli sulla lingua la nostra vera vita mentale. Una vita che ognuno di noi coltiva e che potrebbe rimanere sempre «segreta e inconfessabile» a meno che non si faccia ricorso alla scrittura letteraria o ad altre forme di narratività. 
Oggi la complessità dell'impresa di assegnare una definizione certa al concetto di identità individuale è acuita dall’influsso di reti digitali e tecnologie della comunicazione sempre più pervasive. 
Il primo romanzo del sociologo Gianfranco Pecchinenda si interroga su quanto sia complicato tratteggiare l’essenza di un individuo e tramandarla.
Come per Ricardo Montero, il nostro passato e il nostro futuro potrebbero essere nelle mani di chi leggerà la nostra storia. O le nostre storie. Dagli in album di famiglia ai diari, dalle comunicazioni epistolari più o meno personali ai pagamenti con carta di credito: tutti frammenti di uno stesso racconto che possono essere equivocati, distorti certo difficilmente ricomponibili nella loro interrelazione, anche da chi di quei frammenti di vissuto è stato il protagonista. L’immaginazione e le protesi digitali ci aiutano a colmare i vuoti della memoria e della conoscenza. 
Il narcisismo confeziona l’insieme ritoccando e immobilizzando fotografie che poi vengono esposte ovunque la società dei consumi comunicativi ci incoraggi a farlo.
Lo streaming delle vite esposte su una bacheca di Facebook percuote le vicende di Essere Ricardo Montero ricordandoci che quei «personaggi senza corpo» hanno sempre a disposizione un varco per invadere la nostra quotidianità. Lo squarcio che lascia passare i piccioni congiunge simbolicamente diversi livelli di consapevolezza della realtà. Il sogno e la realtà sono solo due di questi livelli che coesistono nell’ambito di uno stesso universo.
L’ironia è che il contesto comunicativo contemporaneo, fortemente caratterizzato dallo sharing di massa, celebra un’idea di condivisione piena, di conoscibilità assoluta che seduce l’individuo e le sue cerchie di conoscenti illudendo tutti. Quando il gioco comunicativo lambisce la scala planetaria, le nostre comunicazioni uno a molti possono seguire strade non sempre prevedibili.
Transazioni simboliche codificate, registrate e archiviate dalla rete, sembrano dire agli altri e a noi stessi tutto quello che c’è da dire sul conto di una persona.
Ma in realtà sono solo micronarrazioni, nient’altro che ponti gettati verso un altrove e un altro quando disperatamente in bilico tra la magia della rievocazione e la slealtà della contraffazione.
Come un’ombra che cammina, il sedimento delle nostre attività nel dominio digitale cresce man mano che si accumula il registro di quegli attimi della nostra vita che per scelta o per caso sono stati imprigionati in una registrazione digitale o fissati in una transazione nel web. Il rischio è che ad un certo punto questa ombra digitale, non importa se in buona o cattiva fede, possa parlare per noi senza che ce ne rendiamo conto.
E’ vero che il gioco dei social media può accendere catene di eventi spesso gravide di contaminazioni stimolanti ma all’origine di tutto vi è pur sempre l’immagine di noi che decidiamo di condividere. Proprio la consistenza di quell’immagine primigenia è un problema decisamente irrisolto.
Nell’era delle carte di credito e delle truffe informatiche accettiamo senza fatica l’idea che un’identità possa essere rubata. Nella società dell’informazione, non lascia sgomenti la circostanza che un particolare diario basato su ricordi inventati e informazioni verosimili possa tratteggiare l’esistenza di un personaggio insinuando il dubbio che questi sia reale tanto quanto lo siamo noi. Ma quello che lascia sgomenti in questo romanzo è che un Ricardo Montero possa muoversi alla luce del giorno invadendo il dominio degli esseri in carne ed ossa, pronto a prendere il nostro posto in virtù di informazioni vitali quali i nostri ricordi o i dettagli dei nostri spostamenti, del nostro ménage familiare. Sullo sfondo la privacy sempre più schiacciata dalle esigenze industriali dello sharing di massa.
Essere Ricardo Montero gioca dunque con la paura ancestrale del doppelgänger aggiungendo al racconto sfumature psico-sociologiche proprie dell’evo digitale.
Se la vita sociale dell’uomo contemporaneo è caratterizzata da un continuo balletto tra maschere e palcoscenici diventa sempre più sottile il discrimine che rende nettamente fasulle tutte le persone virtuali che la società ci istiga ad interpretare.
Siamo come quel bimbo che cresce con due nomi alternativi ed è continuamente «costretto a confrontarsi con l’assurdo e irrisolvibile dilemma» di doverne scegliere uno di volta in volta.
Con quale nome farsi identificare? Del resto l'anonimato in rete (o forse possiamo azzardare il neologismo “pseudonimato”) può essere visto come una risorsa: forse l'ultimo baluardo di quella libertà di opinione messa sempre più all'angolo da governi amanti del tecno-controllo e da aziende imbottite di avvocati come candelotti di dinamite.
La spiazzante copertina di Essere Ricardo Montero è forse il miglior assaggio di questo evanescente discrimine tra persone reali e virtuali. Non fa una piega che in copertina ci sia una immagine rubata ingrandendo in maniera apparentemente casuale la copertina di un altro libro. Si tratta della copertina dell’edizione spagnola del romanzo Doctor Pasavento di Enrique Vila-Matas.
In alto si intravede appunto la parte inferiore del titolo Doctor Pasavento. Al centro dell’ingrandimento regna una vecchia foto datata 1924. L'uomo col cappello è Emmanuel Bove, «il più grande tra gli scrittori francesi sconosciuti», ritratto con sua figlia Nora ai Giardini del Lussemburgo di Parigi.
Si tratta di un progetto grafico fuori da ogni seminato ma con una eloquenza che nessuna quarta di copertina riuscirebbe a centrare: c’è la beffarda ironia di un ricalco quasi letterale di parole scritte da altri, eppure rimodellate in contesti inediti; c’è l’apparente casualità di una regia che sembra non esserci ma che invece c’è; ci sono i percorsi della memoria simbolicamente richiamati da questa foto vecchia di quasi cento anni.
Soprattutto c’è la figura di Emanuel Bove che rappresenta citazioni letterarie colte ma nello stesso tempo la singolarità della biografia di uno scrittore osannato dalla critica ma inspiegabilmente invisibile nel corso della storia della letteratura tanto da sembrare un fantasma, quasi un personaggio inventato.
Uomini col cappello, piccioni: esseri liminali, intermediari che ci fanno intravedere altre dimensioni, denudando l’impostura narrativa e la verità onirica da ogni imbarazzo morale, lasciando emergere il cardine antropologico dell’autonarrazione.
Come un incantesimo, il senso di incertezza si propaga dalla copertina a tutti i personaggi che popolano il resto del romanzo Essere Ricardo Montero. Anzitutto Ricardo Montero: un personaggio di finzione che si crede reale e narrandosi cerca di dimostrare la sua assoluta normalità. In fondo egli è un alter ego precario del suo ideatore: vive «brevi momenti, per essere successivamente sostituito da altri come lui». Il suo discorso interiore (e quindi egli stesso) non è altro che una bozza e la sua continua riscrittura rispecchia la visione sociologica di una spossata autocoscienza individuale. A ogni pagina diventa sempre più difficile riconoscere di chi sia la voce narrante e il fatto che la storia sia stata realizzata ricombinando pagine di letteratura classica, scene di film, titoli di opere d’altri, accende un assillante senso di déjà vu.
Il sociologo dei mondi virtuali Gianfranco Pecchinenda sceglie dunque un vertiginoso gioco di specchi per affronta il problema della formazione dell’identità. In fondo Essere Ricardo Montero è la continuazione con altri mezzi del discorso sull’Homunculus in cui si spiegava il rapporto tra il sé e le facoltà autonarrative. Nel saggio Homunculus. Sociologia dell'identità e auto narrazione Gianfranco Pecchinenda scrive: «Autonarrarsi è l'unico modo che conosciamo per delimitare la nostra identità qualificandoci come soggetti agenti». In quel saggio le facoltà autonarrative, così importanti per le teorie sulla costruzione dell’identità, sono evocate, teorizzate, collocate all’interno di un flusso storico che congiunge Omero alle moderne narrazioni video ludiche.
Con Essere Ricardo Montero il sociologo torna su quelle tracce e soddisfa la fantasia estrema di mettere in scena le teorie rendendole avvincenti come un romanzo, surreali come un sogno, sincronizzate con il nascente secolo dell’homunculus digitale, una zona franca che consente lo scatenarsi di quella parte del nostro io più profondo deputato alla rappresentazione e alla divulgazione della nostra identità. Smarcandosi dalla forma-saggio, l’approccio è più libero e creativo, forse addirittura più efficace proprio sul piano didattico.
L’homunculus di Ricardo Montero che riesce ad edificare il sé dando coerenza ad esperienze vissute (o presunte tali), regole di linguaggio e, ovviamente, ambizioni narrative rivela la natura illusoria di un’identità individuale unica e stabile.
Conferendo forma letteraria alle intermittenze e alle irregolarità dell’autocoscienza umana, il sociologo Pecchinenda descrive con ironia quell’ostinato e antropologico equilibrismo chiamato autonarrazione. Cosa succede se un homunculus, normalmente deputato al ruolo di biografo della nostra identità, per una strana mutazione genetica decide improvvisamente di vivere una sua vita autonoma e narrare una sua
verità-identità incarnata da una persona fisicamente autosufficiente? Anzitutto quello che avrebbe da raccontare sarebbe straordinariamente credibile, avendo rovistato per anni ogni piega più nascosta della nostra coscienza.
Ricardo Montero prova disperatamente ad affermare la solidità della sua identità documentando un albero genealogico, illustrando meticolosamente i passaggi chiave della storia della sua famiglia.
Commuove quasi la forza con la quale la creatura cerca disperatamente di dimostrare a se stesso e al
mondo la concretezza di una esistenza calcando il nesso storico tra padri e figli e tutto quello che numerosi individui hanno dovuto patire per giungere all'approdo della sua nascita.
In tema di architettura identitaria, l’homunculus Montero sceglie astutamente di scandagliare il luogo e il tempo delle origini. Qui il sociologo che è in Pecchinenda sottolinea come venga giocata la carta dell’appartenenza familiare.
Saranno proprio gli sforzi di Ricardo Montero ad insinuare in noi l’idea che quel «delirio di credersi uno scrittore» alberga in chiunque si ponga delle domande sull’essenza profonda della propria identità.
Ma questo Ricardo Montero ha le ore contate: gli scrittori Emmanuel Bove, Enrique Vila- Matas, e Carlos Fuentes (e in parte anche Borges, Pirandello e Miguel de Unamuno) sono i maestri che hanno ispirato la sua genesi e ora pretendono una spiegazione per gli sfacciati copia-incolla. Gli scherzi letterari e metalinguistici di Gianfranco Pecchinenda hanno un ruolo fondamentale nel definire il lato ironico dell’essere ombra modulando il tema del furto creativo e del rapporto con i padri-mentori in uno sconcertante gioco di scatole cinesi. In ciascuna di queste scatole c’è un homunculus che si dimena.
La mente dello scrittore che crea personaggi (ovvero identità simulate) ha molto in comune con i processi mentali attivati dai movimenti del nostro avatar in un social network. E allora chi è davvero quell’essere che aggiorna il nostro status su Facebook? E quali sono i suoi scopi?
Come Ricardo Montero, l’avventore di un social network è anzitutto un autore di sé e costruisce la sua autonarrazione digitale stratificando e selezionando informazioni che possono essere vere, false o di una sfumatura intermedia tra verità e falsità. Proprio come nel microcosmo di un social network, in Essere Ricardo Montero aspiranti scrittori, persone reali e personaggi di finzione si rincorrono in un vortice metalinguistico in cui l’identità del vero narratore (o la vera identità del narratore) resta sempre ambigua. Le pagine di questo romanzo diventano luoghi dove i personaggi di finzione possono manipolare quei legami che tradizionalmente costituiscono il cemento dell’identità: il corpo, il nome, la propria storia personale e magari il proprio albero genealogico.
Non è forse la facilitazione di questa magia narrativa il vero dono concesso al moderno Narciso da internet e dalle chat room digitali?
Genealogia e tracce digitali lasciate su Facebook: due fili narrativi che in Essere Ricardo Montero vengono accostati per suggerire forse un interrogativo: cosa resterà di Ricardo, del suo creatore, dei suoi antenati, dei suoi lettori? E cosa resta della nostra storia nella Storia? Come verrà ricostruito (se verrà ricostruito) il nostro transito in questo universo e nelle vite degli altri? Nel lungo periodo cosa resterà di ciascuno di noi, guardando appena oltre il perimetro del ricordo dei nostri parenti e amici più prossimi?
Il romanzo sposta gradualmente il fuoco della riflessione sociologica e filosofica verso il nesso identità-narrazione-memoria. In ogni universo narrativo l'identità viene definita per accumulo:
dettagli caratterizzanti che si sedimentano nella memoria di chi scrive e di chi legge. Se la letteratura può essere un modo per sopravvivere ai padri o ai maestri, la narrazione del sé attraverso l'esercizio quotidiano delle protesi digitali della coscienza può essere una strategia (più o meno consapevole) attraverso cui l’individuo cerca di garantirsi la sopravvivenza oltre il transito biologico.
«Sei sicuro di voler disattivare il tuo account?» Gli occhi sbarrati dell'Autore fissano un monitor assillati da un drammatico dubbio: la materia che vediamo di fronte a noi è una semplice coltura narrativa o vera vita? E’ davvero possibile tirare una linea tra i due livelli? Siamo arrivati ad affidare alle macchine i nostri segreti, le nostre memorie, parti sempre più importanti della nostra coscienza.
Lo scrigno digitale è protetto da una password e da una privacy policy: entrambi elementi ridicolmente precari.
Oggetti inanimati e mondi virtuali diventano insospettabili ricettacoli di emozioni, a volte sorprendentemente patetiche e spropositate rispetto alla trivialità del meccanismo di contatto immateriale che le ha generate. Ecco come viene cambiata la nostra vita mentale da un mondo in cui il web costituisce un tessuto connettivo che collega punto a punto: il passato ha a disposizione più tempi per un ritorno; il presente è sempre più carico di elettrizzanti opportunità. Così la fatalità di un addio è meno drammatica, la speranza di un incontro più concreta. La fortuna può essere aiutata.
Essere Ricardo Montero significa vivere fino in fondo tutte le opportunità di questo nuovo mondo che rende precarie le identità. La rete, senza alcun preavviso, può improvvisamente avviluppare un individuo e trasformarsi in colla di sentimenti. Frasi burocratiche come «il tuo account è stato disattivato» vengono estrapolate dal linguaggio delle macchine e diventano vettori di clamorosi sentimentalismi. Nel caso del povero Ricardo Montero, uno straziante grido di dolore.
Ma la macchina Facebook, infaticabile Cupido meccanico, ha sempre da scoccare qualche freccia di riserva lanciando gli ultimi subdoli richiami al lato umano di chi vuole allontanarsi: «Speriamo che
tu possa tornare presto» oppure «Questo amico sentirà la tua mancanza. Inviagli un messaggio».
In futuro, potrebbe capitare che qualcuno vorrà cercarci curiosando tra faldoni che non fanno polvere e fiumi di immagini che non ingialliscono. Nello sguardo dei posteri, nativi digitali, si materializzerà bit dopo bit una visione. Costoro osserveranno noi o il nostro simulacro digitale?
Vedranno qualcosa che parlerà di noi o sarà la nostra ombra tramata dall’homunculus e sfuggita ad
ogni controllo?
La postfazione di Essere Ricardo Montero, affidata alle parole di un altro personaggio di finzione nato prima di Ricardo, è un’ ammonimento rivolto proprio a tutte le possibili persone virtuali, alle nuove generazioni appartenenti a quel «genere di umanità diversa».
«La differenza la fanno proprio il corpo, la faccia, e tutti quegli attributi che tutti loro hanno e che noi invece non abbiamo. […] Il problema, forse, sono oggi proprio queste nuove tecnologie, tutte queste strane diavolerie che tendono ad illudere alcuni dei più giovani tra noi, per poter diventare degli esseri più autonomi, più indipendenti, più liberi e forse anche più veri di quello che potremmo mai essere. 
Il fatto è che noi non siamo e non potremo mai essere degli individui come gli altri. Il frutto della carne è dell’altra carne. Il frutto del pensiero è dell’altro pensiero, tutto qui.»
La postfazione suona piuttosto lapidaria, ma è pur sempre affidata alle parole di un personaggio fittizio. Inoltre la creatura letteraria rivendica una propria dignità, un diritto al riconoscimento dell'identità non certo un corpo fisico.
Tutto sommato il nostro Ricardo Montero avrà forse davvero la sua occasione per imporsi nella imprevedibile e lunghissima partita a scacchi che ogni individuo gioca contro il tempo e l’oblio.
Proprio grazie all’immacolato nitore della trasmissione digitale e alla forza mitopoietica di un buon racconto, ciascun Montero avrà ottime possibilità di sopravvivere al proprio autore-creatore prendendosi una clamorosa rivincita. La voglia di raccontare a tutti i costi è l’unica vera costante antropologica. Non sarà la fine del mondo l’incerta attribuzione di un diario autobiografico.
Prima di congedarsi Ricardo Montero si rassicura così: «essendo stato, non avrei più potuto evitare di essere ancora».
Del resto nessuno può sopravvivere senza la propria ombra, specie se si tratta di un’ombra digitale così ben stagliata.


articolo di Valerio Pellegrini

sabato 3 novembre 2012

LO SCRITTORE E IL SUO DOPPIO: UN GIALLO PSICOLOGICO



In “Essere Ricardo Montero” Gianfranco Pecchinenda racconta di un omicidio ai tempi di Facebook

LO SCRITTORE E IL SUO DOPPIO: UN GIALLO PSICOLOGICO

 

Nella sua ultima prova narrativa il Preside della Facoltà di Sociologia affronta un tema caro alla letteratura contaminandolo con gli argomenti dei suoi studi e con le nuove tecnologie


articolo di Bianca de Fazio su LA REPUBBLICA- Napoli 03/11/2012

Gioca sull’identità e sulla doppiezza dell’io l’ultima prova narrativa di Gianfranco Pecchinenda, docente di sociologia della conoscenza alla Federico II e preside della facoltà di Sociologia.
Un tema caro alla letteratura, specie a quella del secolo scorso.
Un tema che Pecchinenda contamina con gli argomenti dei suoi studi, con le nuove tecnologie della comunicazione, in particolare.
E l’identità del soggetto diventa l’abusato profilo su Facebook.
Più di uno, perché le identità possibili online sono quante si ha la pazienza di costruirsene, o quanto qualcun altro ne costruisce per conto del soggetto.
Profili talmente credibili, talmente “vivi” nonostante si tratti di una vita immaginaria, da considerare omicidio la soppressione di uno di essi, la cancellazione di un profilo.
Un omicidio attorno al quale investigare, nel libro di Pecchinenda, che è infatti anche un giallo. Un giallo psicologico. Il colpevole? Appena scontato che si tratti dell’autore stesso. Il breve (94pagine) romanzo di Pecchinenda si intitola “Essere Ricardo Montero” e Montero protagonista della prima parte, racconta la sua scelta di essere scrittore: più difficile da scegliere che da essere. Perché si tratta di una decisione, quella d’essere scrittore, « radicale e assoluta ». Essere scrittore, scrive Pecchinenda, «significa obbligarsi a stare soli, seduti e in silenzio ... nel momento in cui uno si è convinto di essere uno scrittore ha più della metà del cammino già fatta» .
Questo Pecchinenda dice nella finzione letteraria, mentre nella realtà spiega che «la decisione di mettermi alla prova come scrittore scaturisce dalla convergenza di due diversi percorsi. Il primo è legato al mio mestiere di ricercatore e docente di Sociologia. A lungo andare i miei tentativi di spiegazione dei comportamenti umani si sono quasi naturalmente incontrati con le geniali intuizioni derivanti dalla letteratura e dalle grandi narrazioni artistiche. Il secondo percorso è legato invece a motivazioni di carattere più personale: la scomparsa di mio padre mi ha a un certo punto dato una sorta di scossa portandomi a decidere di provare a oggettivare le mie riflessioni ( e se vogliamo anche il mio sentire più intimo) nella scrittura. A partire da allora ho cominciato a sentirmi uno scrittore, e a vivere, pensare e agire quanto tale».
Così il doppio è anche quello che si sceglie, non solo il profilo “letto” dagli altri, e, nel caso di Pecchinenda, la finzione letteraria diventa realtà quando ribadisce: «Chi vuole fare lo scrittore, essere uno scrittore, deve innanzitutto inventarsi “un altro”, un individuo che si assumerà il dovere di scrivere le sue opere» e pazienza se di quell’altro si finirà «prima o poi per diventare schiavi». Difficile distinguere, letto il libro, le parole del Pecchinenda autore da quelle del suo Ricardo Montero.



martedì 11 settembre 2012

THE QUARTERLY CONVERSATION


Orgogliosi di essere citati dal The Quarterly Conversation e, soprattutto, da Tom Bunstead, riportiamo qui l'intervista a Enrique Vila-Matas  apparsa su http://quarterlyconversation.com

 ***


(By way of introduction to “I’m Not Auster” by Enrique Vila-Matas we present these three questions with translator Tom Bunstead.)
Tom Bunstead: You’ve appeared in a number of other writers’ books, either in passing in reference to your work or as a character: in 2666 by Roberto Bolaño, Ejército Enemigo by Alberto Olmos, Mari Kinski by Ainhoa Rebolledo, a short story by Eduardo Halfon called “Never Any End to Hemingway,” and now in a Brazilian title “Se um de nós dois morrer” by Paulo Roberto Pires and an Italian one called “Essere Ricardo Montero” by Gianfranco Pecchinenda. Intertextuality is also a big part of your most recent novel Dublinesca, and in the story we feature here. Why is it so important to you?
Enrique Vila-Matas: I think I’ve been one of the main proponents of this tendency to turn real life people—my friends, for example—into fictional characters. I’ve been doing it since 1985 since my “An Abbreviated History of Portable Literature.” It began when I had an interesting surprise as a reader—as I mention indirectly in Dublinesca­—when I found John Ford appearing as a character in Peter Handke’s Short Letter, Long Farewell; in the book, Ford spoke with the two youths who were visiting him and became yet another character. When one sees that something like this can be done—turning a person like John Ford into a fictional character—you also see there’s nothing stopping you from trying something similar yourself; it’s like someone saying to you: this isn’t actually forbidden, because what bad could there possibly be in it?
TB: Would you say this is a stronger tendency in Spanish-language than Anglophone literature? Might we draw any wider conclusions about the two traditions from this?
EVM: I wouldn’t know. In terms of my own form of using friends and real life people as characters, I’ve always just seen it as something “natural.” After all, aren’t there an awful lot of writers who solve the problem of having to give characters false names by turning to the phone book or names on gravestones?
TB: What does it feel like to be a character in other people’s books?
EVM: I really like it, I feel I’m a fictional character who appears in lots of novels, all of them very different. It feels good—though I don’t recognize myself in any of these characters.

A weakness for Auster, who by some is now so maligned. I think the dangerous decline in appreciation for his work began with people saying he wasn’t as well known in the U.S as he is in Europe. In Spain—a country so riddled with envy, it’s practically the national sport—the idea spread like wildfire that a man like this (intelligent, rich, good-looking, successful) was more highly regarded by us than by the Americans. I started overhearing people saying, Didn’t I tell you, we don’t have a clue! A certain irregularity in Auster’s recent work meant that what was already fertile ground blossomed with envy, and all kinds of resentful and mean-spirited people started having a go at Auster as well.
Auster has always just been my kind of writer. Whatever anyone else says, I’ve always found him simply charming. And just as I can allow him his minor faults, I’m also glad when he does well. There’s something graceful about his writing that places him, along with the likes of Stevenson, in Fernando Savater’s category of enchanters. “It’s hardly scientific as a literary critical category, I know”, says Savater, “but I’m only writing for proper readers, and I know they’ll know what I mean.” This charm, for Savater,is easier to distinguish by what it isn’t: it isn’t genius, profundity, brio, or formal perfection, and neither could it be called an innovative or a classical bent; a minor author might have the touch and still never break into the highest ranks of world literature. But when combined with other qualities, it can make addicts of us. “Perhaps the closest thing to this charm,” concluded Savater, “is when we encounter someone and admire them at first sight, unenviously, unsuspiciously—someone whose shortcomings we can also excuse. The kind of literary connection we feel with Voltaire, say, or de Quincey, or Borges, but not with Anatole France, Goethe, Benito Pérez Galdós or Gorky.”
Whenever I come across an interview with Auster, I’ll always read it straight away. I find it puts me in the right mood, giving me new ideas and an impetus to write. This is why I find it difficult to finish his novels, and indeed interviews with him—such is my urge to write, I simply have to stop reading. In the interview I’ve just abandoned in order to write this, Auster cites Cervantes, Dickens, Kafka, Beckett and Montaigne as influences. These are exactly the writers who form the axis on which my literary universe also turns. “They’re all inside me,” Auster says. “Dozens of writers are inside me, but I don’t think my work sounds or feels like anyone else’s. I’m not writing their books. I’m writing my own.”
I am quite certain I can now say the same for myself. “They’re all inside me” is a phrase that confirms the sensation in Auster—something I admit I also feel—that the more you experience solitude, paradoxically the less you feel isolated or ostracized; rather you feel yourself opening towards others. “The surprising thing,” as Auster puts it, “is that we can’t begin to understand our relationship to other people until we’re on our own. The more we’re alone, and the more we sink into solitude, the more deeply we feel this relationship.” This seems to me a good definition of the writer’s solitude too.
The others (other writers that is, the ones we like, the ones inside us) work on us in a strange way, so that it becomes impossible in fact to be without them. However far away you are in a physical sense (even if you find yourself on a desert island, or locked in solitary confinement), you find you’re inhabited by others. This is a far cry from how Miguel de Unamuno saw it; he was a first-rate thinker but also an egomaniac, and ended up suspecting that there were no such things as others, that in fact others were his own invention, a way of avoiding the distress of being alone in the world. Sometimes I toy with the idea that my friends are indeed figments of my imagination. Although I never manage to make them say what I want them to, sometimes, seen from this unamaniacal p p erspective, other people can appear to be taking part in a strange game, theatrical, conspiratorial, like something out of a David Mamet film. I do have days when it seems like everyone’s agreed to say precisely what I’d expect them to say. But not very often.
There is no greater contempt for the other than to think we have imagined the other. Unamuno looks into his deepest self and finds there only himself. Auster, on the other hand, looking in the same place, finds not only himself, but also the world. Does reading Auster uncover my world for me? Quite the opposite: I find there the other. And this is how I learn to keep the other inside when I find myself sitting alone in front of the computer, on wintry mornings such as this one. On second thoughts, my having sat down in front of a computer—rather than a typewriter—is a kind of dissent against AuAuster. Because what really pushed me to talk about Auster this morning were certain words of his to do with being unable to give up his typewriter. “I’ve had it since 1974,” he says, “more than half my life now. All I have to do is change the ribbons every once in a while. But I’m living in fear that a day will come when there won’t be any ribbons left to buy—and I’ll have to go digital and join the twenty-first century.”
This admission of love for his typewriter filled me with shame, reminding me of how unthinkingly I got rid of my own and switched to using a computer; one day six years ago I ran out of ribbons and, having twice searched Barcelona, without success, gave up. They didn’t even have any in the small shop near Plaza Urquinaona that has resisted the advances of the age by continuing to sell typewriters and ribbons. I used to go there and think the whole thing a miracle; I considered its owners (so fanatical about the virtues of Olympia typewriters) vigorous defenders of the old sort of electric keys.
Ignacio Martínez de Pisón, whom I told about these shop owners (this strange, anti-modern couple), went on to write a story in which someone sets up a computer shop right across from them (his invention), signalling their demise. It looked as though it might have been a prescient tale, but in fact the anti-modern couple were so afraid Martínez de Pisón’s idea might come true (you really should read the story for yourself) that they decided to switch to computers, just like that, which meant I had to follow suit. I’ve never been in any doubt that this was last of the city’s typewriter shops.
Paul Auster had better luck, because living in New York he was able to remain faithful to his Olympia. He and I are different in this sense (and in so many others, now that I think about it, though I won’t go into them here—for fear of making myself look worse still!), and I actually find this a relief because it means I can carry on being alone—still with all my favourite writers inside me, still writing my books, not theirs. Otherwise, Auster would be me. I wonder, what would I do in this world if I weren’t envious of him, if I no longer wanted to be like him? When I met him last year in New York, I remember everyone trying to point out similarities between us. We happened to have dressed the same that afternoon, yes. Both of us also lived in Paris during exactly the same period in the 1970’s, true. Both of us had had complicated relations with a certain Sophie Calle, OK. We used to share an editor in Spain, we’re both comfortable talking, we both like New York… but there the similarities end—in New York. Only he lives there. I started thinking that, if we did have things in common, that should also make it easier to find differences between us. Happily. There’s something reassuring (reassuring like masks are, bringing about an astonishing sort of calm) in the fact that someone has more charm than you do. Someone who you might resemble but, whatever happens, you will never actually be like. Happily. This way you’ll always have someone to look up to. This way you’ll always have your other, and instead of encountering only yourself you might, somewhere along the way, also encounter the world.


fonte: http://quarterlyconversation.com

venerdì 31 agosto 2012

ESSERE RICARDO MONTERO * LIBRI ALL'ORIZZONTE


VENERDì 31 AGOSTO ore 18:00-19:30
----LIBRI ALL'ORIZZONTE - FIERA DEL LIBRO DI SPOLETO 2012----

(Salone d’onore - Rocca Albornoziana)
LETTERATURA GIALLA E NOIR - YELLOW BEAUTY CONTEST
Questa volta il mistero è... chi è il migliore?


Ospiti:

Massimo Lugli (giornalista, scrittore, autore di L’istinto del Lupo, Newton & Compton. Finalista al Premio Strega e vincitore del concorso Controstregati), Valerio Varesi (giornalista e scrittore. Il commissario Soneri, protagonista dei romanzi di Varesi, con il volto di Luca Barbareschi è approdato in Tv nella serie di sceneggiati Nebbie e Delitti su Rai Due), Giorgio Ballario (giornalista e scrittore, autore di Le rose di Axum. Un’indagine del maggiore Morosini, Hobby & Work Publishing), Angelo Petrella (scrittore, autore di Le api randage, Garzanti), Gianfranco Pecchinenda (scrittore, autore di Essere Ricardo Montero, Lavieri Edizioni) NUOVI GIALLI PER RAGAZZI a cura di Nuove Edizioni Romane


Moderatore:
Alessio Billi (sceneggiatore)


La rosa dei giallisti / La rosa dei detective
Massimo Lugli / Kay Scarpetta (Patricia Cornwell)
Valerio Varesi / Fabio Montale (Jean Claude Izzo)
Giorgio Ballario / Pepe Carvalho (Vazquez Montalbàn)
Angelo Petrella / Lloyd Hopkins (James Ellroy)
Gianfranco Pecchinenda / Jules Maigret (Georges Simenon)

programma completo all'indirizzo:
http://www.libriallorizzonte.com/programma.asp

lunedì 16 luglio 2012

Paulo R. Pires, Gianfranco Pecchinenda e la metamorfosi del "metodo" Vila-Matas

Articolo di Anna Pianura su il sole24ORE Letture e su  AgoraVox




Abituato ad utilizzare scrittori e poeti, più o meno celebri, come personaggi dei suoi stessi libri, Enrique Vila-Matas, autore catalano oramai celebre in tutto il mondo, si è ritrovato recentemente nella curiosa situazione di dover assistere egli stesso ad una pirandelliana moltiplicazione delle metamorfosi della propria identità (o come altro potremmo definirla?): da autore che inventa splendide finzioni sulla vita di altrettanti autori, a personaggio di finzioni scritte da altri scrittori, protagonista di vicende immaginate da altri come lui.
Non stiamo parlando di saggi in cui l’imponente opera dello scrittore viene sovente fatta oggetto di analisi critica, linguistica, testuale, ma di veri e propri racconti e romanzi di finzione, come quelli recentemente pubblicati in Brasile e in Italia da Paulo Roberto Pires e Gianfranco Pecchinenda.
Nel primo caso, un libro appena uscito per i tipi di Alfaguara con il titolo Se um de nós dois morrer, si tratta di un ingegnoso e raffinato gioco di specchi in cui viene messa in scena, in modo spesso ironico, la soffocante difficoltà dell’ambiente letterario, attraverso la metafora di uno scrittore che si perde nel complesso labirinto tra l’arte e la vita.
Theo, un giovane scrittore frustrato dall’insuccesso del suo primo libro, soffre della classica paralisi creativa, e finisce per soccombere a quella pulsione distruttiva a cui è soggetto ogni autentico autore consapevole del proprio fallimento. Sophia, la sua ragazza, ritroverà il corpo senza vita di Theo e una busta a lei indirizzata in cui le viene chiesto di realizzare un suo ultimo desiderio: far pervenire a Enrique Vila-Matas una sorta di manoscritto di un'opera che non è mai esistita. Per esaudire tale richiesta, Sophie parte per Paraty, dove è in corso una Fiera Internazionale del Libro (alla quale realmente, nel 2005, Vila-Matas aveva effettivamente partecipato come autore invitato). A partire da questo evento si dipaneranno una serie di avvenimenti in cui la commistione tra letteratura, biografia e finzione renderà possibile a Paulo Roberto Pires di realizzare uno stupefacente inventario artistico sulla straordinaria potenza della forma letteraria di ispirazione vila-matasiana.
Anche nel secondo romanzo, Essere Ricardo Montero, apparso circa un anno prima per le Edizioni Lavieri, Gianfranco Pecchinenda ha, tra i suoi spunti principali, un incontro tra un personaggio di finzione (il narratore) e lo scrittore Enrique Vila-Matas, realmente verificatosi nel 2009, mentre quest’ultimo partecipava alla presentazione dell’edizione italiana del Dottor Pasavento all’Istituto Cervantes della città di Napoli. Anche qui uno scrittore, nel raccontare la storia della sua passione per i libri, tende a confondere continuamente i diversi piani dell’esistenza, aggiungendo però, come novità assoluta, e ulteriore elemento di confusione identitaria, la presenza delle nuove tecnologie della comunicazione, e in particolare di un potente e pervasivo social network come Facebook.
Insomma due appassionanti incursioni letterarie derivanti dall’applicazione di quella che potremmo definire una nemesi del “metodo” Vila-Matas, messa in opera da due autori irrimediabilmente coinvolti dallo stupore dell’infinito potere di seduzione della letteratura.



sabato 14 luglio 2012

UNA STORIA BORGESIANA DAL SAPORE DI CONFESSIONE

Quando le pagine hanno il calore di una confessione, più che il ticchettio di un congegno intellettuale
(articolo tratto da "Il FOGLIO" del giorno 11luglio2012)


vedi anche la rassegna stampa Lavieri