Una
fotografia può essere una gran bugiarda. Tanto più se è ingiallita dal
tempo.
Di per sé l'atto di immobilizzare l'essenza di una persona
intrattiene una relazione quanto meno ambigua con la realtà: non
sappiamo cosa resta fuori dal quadro e ciò che è inquadrato non può
sfuggire al lavorio del tempo.
Ma va bene così: quando ci mettiamo in posa lo sappiamo che la realtà è pi ù complessa e sfumata di un semplice scatto. Chi prepara la messa in scena lo sa ancora meglio.
Resta da capire, quando tutto sarà stato detto e fatto, cosa parlerà di noi al resto del mondo.
Una vecchia foto? Un video? O qualcosa di più cospicuo, magari un diario? O forse un diario di pensieri affidati al nostro alter ego preferito che, sotto il cappello di uno pseudonimo, saprà esprimere senza peli sulla lingua la nostra vera vita mentale. Una vita che ognuno di noi coltiva e che potrebbe rimanere sempre «segreta e inconfessabile» a meno che non si faccia ricorso alla scrittura letteraria o ad altre forme di narratività.
Una vecchia foto? Un video? O qualcosa di più cospicuo, magari un diario? O forse un diario di pensieri affidati al nostro alter ego preferito che, sotto il cappello di uno pseudonimo, saprà esprimere senza peli sulla lingua la nostra vera vita mentale. Una vita che ognuno di noi coltiva e che potrebbe rimanere sempre «segreta e inconfessabile» a meno che non si faccia ricorso alla scrittura letteraria o ad altre forme di narratività.
Oggi la complessità dell'impresa di assegnare una definizione certa al
concetto di identità individuale è acuita dall’influsso di reti
digitali e tecnologie della comunicazione sempre più pervasive.
Il primo romanzo del sociologo Gianfranco Pecchinenda si interroga su quanto sia complicato tratteggiare l’essenza di un individuo e tramandarla.
Il primo romanzo del sociologo Gianfranco Pecchinenda si interroga su quanto sia complicato tratteggiare l’essenza di un individuo e tramandarla.
Come per Ricardo Montero, il nostro passato e
il nostro futuro potrebbero essere nelle mani di chi leggerà la nostra
storia. O le nostre storie. Dagli in album di famiglia ai diari, dalle
comunicazioni epistolari più o meno personali ai pagamenti con carta di
credito: tutti frammenti di uno stesso racconto che possono essere
equivocati, distorti certo difficilmente ricomponibili nella loro interrelazione, anche da chi di quei frammenti di vissuto è stato il
protagonista. L’immaginazione e le protesi digitali ci aiutano a
colmare i vuoti della memoria e della conoscenza.
Il narcisismo confeziona l’insieme ritoccando e immobilizzando fotografie che poi vengono esposte ovunque la società dei consumi comunicativi ci incoraggi a farlo.
Il narcisismo confeziona l’insieme ritoccando e immobilizzando fotografie che poi vengono esposte ovunque la società dei consumi comunicativi ci incoraggi a farlo.
Lo streaming delle vite esposte su una
bacheca di Facebook percuote le vicende di Essere Ricardo Montero
ricordandoci che quei «personaggi senza corpo» hanno sempre a
disposizione un varco per invadere la nostra quotidianità. Lo squarcio
che lascia passare i piccioni congiunge simbolicamente diversi livelli
di consapevolezza della realtà. Il sogno e la realtà sono solo due di
questi livelli che coesistono nell’ambito di uno stesso universo.
L’ironia è che il contesto comunicativo contemporaneo, fortemente
caratterizzato dallo sharing di massa, celebra un’idea di condivisione
piena, di conoscibilità assoluta che seduce l’individuo e le sue
cerchie di conoscenti illudendo tutti. Quando il gioco comunicativo
lambisce la scala planetaria, le nostre comunicazioni uno a molti
possono seguire strade non sempre prevedibili.
Transazioni
simboliche codificate, registrate e archiviate dalla rete, sembrano dire
agli altri e a noi stessi tutto quello che c’è da dire sul conto di
una persona.
Ma in realtà sono solo micronarrazioni, nient’altro
che ponti gettati verso un altrove e un altro quando disperatamente in
bilico tra la magia della rievocazione e la slealtà della
contraffazione.
Come un’ombra che cammina, il sedimento
delle nostre attività nel dominio digitale cresce man mano che si
accumula il registro di quegli attimi della nostra vita che per scelta o
per caso sono stati imprigionati in una registrazione digitale o
fissati in una transazione nel web. Il rischio è che ad un certo punto
questa ombra digitale, non importa se in buona o cattiva fede, possa
parlare per noi senza che ce ne rendiamo conto.
E’ vero che il
gioco dei social media può accendere catene di eventi spesso gravide di
contaminazioni stimolanti ma all’origine di tutto vi è pur sempre
l’immagine di noi che decidiamo di condividere. Proprio la consistenza
di quell’immagine primigenia è un problema decisamente irrisolto.
Nell’era delle carte di credito e delle truffe informatiche accettiamo
senza fatica l’idea che un’identità possa essere rubata. Nella società
dell’informazione, non lascia sgomenti la circostanza che un
particolare diario basato su ricordi inventati e informazioni verosimili
possa tratteggiare l’esistenza di un personaggio insinuando il dubbio
che questi sia reale tanto quanto lo siamo noi. Ma quello che lascia
sgomenti in questo romanzo è che un Ricardo Montero possa muoversi alla
luce del giorno invadendo il dominio degli esseri in carne ed ossa,
pronto a prendere il nostro posto in virtù di informazioni vitali quali
i nostri ricordi o i dettagli dei nostri spostamenti, del nostro
ménage familiare. Sullo sfondo la privacy sempre più schiacciata dalle
esigenze industriali dello sharing di massa.
Essere Ricardo
Montero gioca dunque con la paura ancestrale del doppelgänger
aggiungendo al racconto sfumature psico-sociologiche proprie dell’evo
digitale.
Se la vita sociale dell’uomo contemporaneo è
caratterizzata da un continuo balletto tra maschere e palcoscenici
diventa sempre più sottile il discrimine che rende nettamente fasulle
tutte le persone virtuali che la società ci istiga ad interpretare.
Siamo come quel bimbo che cresce con due nomi alternativi ed è
continuamente «costretto a confrontarsi con l’assurdo e irrisolvibile
dilemma» di doverne scegliere uno di volta in volta.
Con quale
nome farsi identificare? Del resto l'anonimato in rete (o forse possiamo
azzardare il neologismo “pseudonimato”) può essere visto come una
risorsa: forse l'ultimo baluardo di quella libertà di opinione messa
sempre più all'angolo da governi amanti del tecno-controllo e da aziende
imbottite di avvocati come candelotti di dinamite.
La
spiazzante copertina di Essere Ricardo Montero è forse il miglior
assaggio di questo evanescente discrimine tra persone reali e virtuali.
Non fa una piega che in copertina ci sia una immagine rubata
ingrandendo in maniera apparentemente casuale la copertina di un altro
libro. Si tratta della copertina dell’edizione spagnola del romanzo
Doctor Pasavento di Enrique Vila-Matas.
In alto si intravede
appunto la parte inferiore del titolo Doctor Pasavento. Al centro
dell’ingrandimento regna una vecchia foto datata 1924. L'uomo col
cappello è Emmanuel Bove, «il più grande tra gli scrittori francesi
sconosciuti», ritratto con sua figlia Nora ai Giardini del Lussemburgo
di Parigi.
Si tratta di un progetto grafico fuori da ogni
seminato ma con una eloquenza che nessuna quarta di copertina
riuscirebbe a centrare: c’è la beffarda ironia di un ricalco quasi
letterale di parole scritte da altri, eppure rimodellate in contesti
inediti; c’è l’apparente casualità di una regia che sembra non esserci
ma che invece c’è; ci sono i percorsi della memoria simbolicamente
richiamati da questa foto vecchia di quasi cento anni.
Soprattutto
c’è la figura di Emanuel Bove che rappresenta citazioni letterarie
colte ma nello stesso tempo la singolarità della biografia di uno
scrittore osannato dalla critica ma inspiegabilmente invisibile nel
corso della storia della letteratura tanto da sembrare un fantasma,
quasi un personaggio inventato.
Uomini col cappello,
piccioni: esseri liminali, intermediari che ci fanno intravedere altre
dimensioni, denudando l’impostura narrativa e la verità onirica da ogni
imbarazzo morale, lasciando emergere il cardine antropologico
dell’autonarrazione.
Come un incantesimo, il senso di
incertezza si propaga dalla copertina a tutti i personaggi che popolano
il resto del romanzo Essere Ricardo Montero. Anzitutto Ricardo Montero:
un personaggio di finzione che si crede reale e narrandosi cerca di
dimostrare la sua assoluta normalità. In fondo egli è un alter ego
precario del suo ideatore: vive «brevi momenti, per essere
successivamente sostituito da altri come lui». Il suo discorso
interiore (e quindi egli stesso) non è altro che una bozza e la sua
continua riscrittura rispecchia la visione sociologica di una spossata
autocoscienza individuale. A ogni pagina diventa sempre più difficile
riconoscere di chi sia la voce narrante e il fatto che la storia sia
stata realizzata ricombinando pagine di letteratura classica, scene di
film, titoli di opere d’altri, accende un assillante senso di déjà vu.
Il sociologo dei mondi virtuali Gianfranco Pecchinenda sceglie dunque
un vertiginoso gioco di specchi per affronta il problema della
formazione dell’identità. In fondo Essere Ricardo Montero è la
continuazione con altri mezzi del discorso sull’Homunculus in cui si
spiegava il rapporto tra il sé e le facoltà autonarrative. Nel saggio
Homunculus. Sociologia dell'identità e auto narrazione Gianfranco
Pecchinenda scrive: «Autonarrarsi è l'unico modo che conosciamo per
delimitare la nostra identità qualificandoci come soggetti agenti». In
quel saggio le facoltà autonarrative, così importanti per le teorie
sulla costruzione dell’identità, sono evocate, teorizzate, collocate
all’interno di un flusso storico che congiunge Omero alle moderne
narrazioni video ludiche.
Con Essere Ricardo Montero il
sociologo torna su quelle tracce e soddisfa la fantasia estrema di
mettere in scena le teorie rendendole avvincenti come un romanzo,
surreali come un sogno, sincronizzate con il nascente secolo
dell’homunculus digitale, una zona franca che consente lo scatenarsi di
quella parte del nostro io più profondo deputato alla rappresentazione e
alla divulgazione della nostra identità. Smarcandosi dalla
forma-saggio, l’approccio è più libero e creativo, forse addirittura
più efficace proprio sul piano didattico.
L’homunculus di
Ricardo Montero che riesce ad edificare il sé dando coerenza ad
esperienze vissute (o presunte tali), regole di linguaggio e,
ovviamente, ambizioni narrative rivela la natura illusoria di
un’identità individuale unica e stabile.
Conferendo forma
letteraria alle intermittenze e alle irregolarità dell’autocoscienza
umana, il sociologo Pecchinenda descrive con ironia quell’ostinato e
antropologico equilibrismo chiamato autonarrazione. Cosa succede se un
homunculus, normalmente deputato al ruolo di biografo della nostra
identità, per una strana mutazione genetica decide improvvisamente di
vivere una sua vita autonoma e narrare una sua
verità-identità
incarnata da una persona fisicamente autosufficiente? Anzitutto quello
che avrebbe da raccontare sarebbe straordinariamente credibile, avendo
rovistato per anni ogni piega più nascosta della nostra coscienza.
Ricardo Montero prova disperatamente ad affermare la solidità della sua
identità documentando un albero genealogico, illustrando
meticolosamente i passaggi chiave della storia della sua famiglia.
Commuove quasi la forza con la quale la creatura cerca disperatamente di dimostrare a se stesso e al
mondo la concretezza di una esistenza calcando il nesso storico tra
padri e figli e tutto quello che numerosi individui hanno dovuto patire
per giungere all'approdo della sua nascita.
In tema di
architettura identitaria, l’homunculus Montero sceglie astutamente di
scandagliare il luogo e il tempo delle origini. Qui il sociologo che è
in Pecchinenda sottolinea come venga giocata la carta dell’appartenenza
familiare.
Saranno proprio gli sforzi di Ricardo Montero ad
insinuare in noi l’idea che quel «delirio di credersi uno scrittore»
alberga in chiunque si ponga delle domande sull’essenza profonda della
propria identità.
Ma questo Ricardo Montero ha le ore contate: gli
scrittori Emmanuel Bove, Enrique Vila- Matas, e Carlos Fuentes (e in
parte anche Borges, Pirandello e Miguel de Unamuno) sono i maestri che
hanno ispirato la sua genesi e ora pretendono una spiegazione per gli
sfacciati copia-incolla. Gli scherzi letterari e metalinguistici di
Gianfranco Pecchinenda hanno un ruolo fondamentale nel definire il lato
ironico dell’essere ombra modulando il tema del furto creativo e del
rapporto con i padri-mentori in uno sconcertante gioco di scatole
cinesi. In ciascuna di queste scatole c’è un homunculus che si dimena.
La mente dello scrittore che crea personaggi (ovvero identità simulate)
ha molto in comune con i processi mentali attivati dai movimenti del
nostro avatar in un social network. E allora chi è davvero quell’essere
che aggiorna il nostro status su Facebook? E quali sono i suoi scopi?
Come Ricardo Montero, l’avventore di un social network è anzitutto un
autore di sé e costruisce la sua autonarrazione digitale stratificando e
selezionando informazioni che possono essere vere, false o di una
sfumatura intermedia tra verità e falsità. Proprio come nel microcosmo
di un social network, in Essere Ricardo Montero aspiranti scrittori,
persone reali e personaggi di finzione si rincorrono in un vortice
metalinguistico in cui l’identità del vero narratore (o la vera identità
del narratore) resta sempre ambigua. Le pagine di questo romanzo
diventano luoghi dove i personaggi di finzione possono manipolare quei
legami che tradizionalmente costituiscono il cemento dell’identità: il
corpo, il nome, la propria storia personale e magari il proprio albero
genealogico.
Non è forse la facilitazione di questa magia narrativa
il vero dono concesso al moderno Narciso da internet e dalle chat room
digitali?
Genealogia e tracce digitali lasciate su Facebook:
due fili narrativi che in Essere Ricardo Montero vengono accostati per
suggerire forse un interrogativo: cosa resterà di Ricardo, del suo
creatore, dei suoi antenati, dei suoi lettori? E cosa resta della
nostra storia nella Storia? Come verrà ricostruito (se verrà
ricostruito) il nostro transito in questo universo e nelle vite degli
altri? Nel lungo periodo cosa resterà di ciascuno di noi, guardando
appena oltre il perimetro del ricordo dei nostri parenti e amici più
prossimi?
Il romanzo sposta gradualmente il fuoco della riflessione sociologica e filosofica verso il nesso identità-narrazione-memori a. In ogni universo narrativo l'identità viene definita per accumulo:
dettagli caratterizzanti che si sedimentano nella memoria di chi scrive
e di chi legge. Se la letteratura può essere un modo per sopravvivere
ai padri o ai maestri, la narrazione del sé attraverso l'esercizio
quotidiano delle protesi digitali della coscienza può essere una
strategia (più o meno consapevole) attraverso cui l’individuo cerca di
garantirsi la sopravvivenza oltre il transito biologico.
«Sei sicuro di voler disattivare il tuo account?» Gli occhi sbarrati
dell'Autore fissano un monitor assillati da un drammatico dubbio: la
materia che vediamo di fronte a noi è una semplice coltura narrativa o
vera vita? E’ davvero possibile tirare una linea tra i due livelli?
Siamo arrivati ad affidare alle macchine i nostri segreti, le nostre
memorie, parti sempre più importanti della nostra coscienza.
Lo scrigno digitale è protetto da una password e da una privacy policy: entrambi elementi ridicolmente precari.
Oggetti inanimati e mondi virtuali diventano insospettabili ricettacoli
di emozioni, a volte sorprendentemente patetiche e spropositate
rispetto alla trivialità del meccanismo di contatto immateriale che le
ha generate. Ecco come viene cambiata la nostra vita mentale da un
mondo in cui il web costituisce un tessuto connettivo che collega punto a
punto: il passato ha a disposizione più tempi per un ritorno; il
presente è sempre più carico di elettrizzanti opportunità. Così la
fatalità di un addio è meno drammatica, la speranza di un incontro più
concreta. La fortuna può essere aiutata.
Essere Ricardo
Montero significa vivere fino in fondo tutte le opportunità di questo
nuovo mondo che rende precarie le identità. La rete, senza alcun
preavviso, può improvvisamente avviluppare un individuo e trasformarsi
in colla di sentimenti. Frasi burocratiche come «il tuo account è stato
disattivato» vengono estrapolate dal linguaggio delle macchine e
diventano vettori di clamorosi sentimentalismi. Nel caso del povero
Ricardo Montero, uno straziante grido di dolore.
Ma la
macchina Facebook, infaticabile Cupido meccanico, ha sempre da scoccare
qualche freccia di riserva lanciando gli ultimi subdoli richiami al
lato umano di chi vuole allontanarsi: «Speriamo che
tu possa tornare presto» oppure «Questo amico sentirà la tua mancanza. Inviagli un messaggio».
In futuro, potrebbe capitare che qualcuno vorrà cercarci curiosando tra
faldoni che non fanno polvere e fiumi di immagini che non
ingialliscono. Nello sguardo dei posteri, nativi digitali, si
materializzerà bit dopo bit una visione. Costoro osserveranno noi o il
nostro simulacro digitale?
Vedranno qualcosa che parlerà di noi o sarà la nostra ombra tramata dall’homunculus e sfuggita ad
ogni controllo?
La postfazione di Essere Ricardo Montero, affidata alle parole di un
altro personaggio di finzione nato prima di Ricardo, è un’ ammonimento
rivolto proprio a tutte le possibili persone virtuali, alle nuove
generazioni appartenenti a quel «genere di umanità diversa».
«La differenza la fanno proprio il corpo, la faccia, e tutti quegli
attributi che tutti loro hanno e che noi invece non abbiamo. […] Il
problema, forse, sono oggi proprio queste nuove tecnologie, tutte
queste strane diavolerie che tendono ad illudere alcuni dei più giovani
tra noi, per poter diventare degli esseri più autonomi, più
indipendenti, più liberi e forse anche più veri di quello che potremmo
mai essere.
Il fatto è che noi non siamo e non potremo mai essere degli individui come gli altri. Il frutto della carne è dell’altra carne. Il frutto del pensiero è dell’altro pensiero, tutto qui.»
Il fatto è che noi non siamo e non potremo mai essere degli individui come gli altri. Il frutto della carne è dell’altra carne. Il frutto del pensiero è dell’altro pensiero, tutto qui.»
La
postfazione suona piuttosto lapidaria, ma è pur sempre affidata alle
parole di un personaggio fittizio. Inoltre la creatura letteraria
rivendica una propria dignità, un diritto al riconoscimento dell'identità non certo un corpo fisico.
Tutto sommato il
nostro Ricardo Montero avrà forse davvero la sua occasione per imporsi
nella imprevedibile e lunghissima partita a scacchi che ogni individuo
gioca contro il tempo e l’oblio.
Proprio grazie all’immacolato
nitore della trasmissione digitale e alla forza mitopoietica di un buon racconto, ciascun Montero avrà ottime possibilità di sopravvivere al
proprio autore-creatore prendendosi una clamorosa rivincita. La voglia
di raccontare a tutti i costi è l’unica vera costante antropologica.
Non sarà la fine del mondo l’incerta attribuzione di un diario
autobiografico.
Prima di congedarsi Ricardo Montero si rassicura così: «essendo stato, non avrei più potuto evitare di essere ancora».
Del resto nessuno può sopravvivere senza la propria ombra, specie se si tratta di un’ombra digitale così ben stagliata.
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