articolo di ANGELA DURINI
L’irruzione di un
elemento “perturbante” – di una vecchia fotografia, di una lettera o di un
diario ormai dimenticati, di un luogo o di un oggetto amato nell’infanzia e
caduti nell’oblìo, o ancora di un altro, di una persona cioè
più o meno significativa, e così via – finiscono sovente per dare origine ad
un processo di
ricostruzione-analisi della propria biografia, in cui si riscoprono di volta in volta elementi nuovi,
assolutamente insospettati e, dunque, difficilmente riconoscibili.
Di qui
l’autobiografia immaginaria del nostro Ricardo Montero, personaggio, io
immaginario nato dalla sovrapposizione di letture, per così dire,
perturbanti: il Dottor Pasavento di Enrique Vila-Matas, Aura del
messicano Carlos Fuentes. E dalla suggestione di una fotografia apparsa nella
copertina del Dottor Pasavento, in cui è ritratto Emmanuel Bove con sua
figlia Nora nei Giardini di Lussemburgo di Parigi nel lontano 1924.
Sin dalle
prime pagine del romanzo emerge il problema dell’autonomia e
dell’appartenenza: se – argomenta Gianfranco Pecchinenda – da giovani ci si
immagina di poter affermare la propria individualità, la propria originalità,
insomma ci si ripropone di rendere la propria persona, dunque, autonoma e ben
distinguibile dalla massa degli altri, di tutti coloro i cui nomi abitano, con
te, il mondo (p. 11 e segg.), quando poi la vita diventa soprattutto una
questione amministrativa, tale bisogno lascia spazio a una ricerca sempre più
pressante di legami e appartenenze, di quegli ancoraggi che possano
fornire un senso alla propria identità. Così più che all’originalità,
all’individualità, alla singolarità, all’autonomia della propria persona e del
proprio nome, ci si mette alla ricerca di coloro che condividono la comunità
immaginaria, familiare, parentale, nazionale, etnica, religiosa, razziale o
quant’altro.
Ci si
ritira, dunque, verso quei modelli originari, quelli che i nostri padri
ci avevano suggerito agli inizi della nostra vita, mettendo in atto processi di
identificazione attraverso la costruzione di solide appartenenze affettive
ed emotive. E di qui un’ossessiva e talvolta inconsapevole ricerca di
un’istituzione alla quale delegare: si rientra così, pacificati,
nell’indistinto gruppo d’appartenenza.
E' chiaro il
nesso con l’opera classica di Ferdinand Tönnies, Gemeinschaft und
Gesellschaft, così come è evidente la più pronunciata inclinazione del
nostro verso la Gemeinschaft, quella forma comunitaria, fondata sul sentimento
di appartenenza e sulla partecipazione spontanea, predominante in epoca
pre-industriale, in contrasto con la Gesellschaft, la forma
societaria, basata sulla razionalità e sullo scambio, dominante nella
moderna società industriale.
Per dirla
con Paul-Luis Landsberg, potremmo immaginare che l’autore prospetti, lungi
dall’individualismo nominalistico che ha caratterizzato la modernità
occidentale, un ritorno al realismo epistemologico, proprio delle
società pre-moderne in cui, sul piano sociologico – secondo lo studioso il
processo di costruzione della società, così come si svolge nel mondo esterno, è
parallelo al processo di costruzione dei concetti quale si svolge nel mondo
interno – la società o (per meglio dire la comunità) possiede una “realtà”
superiore rispetto alle singole parti (cioè agli individui) che la compongono.
Ne "La
teoria sociologica della conoscenza" (2002) Landsberg afferma che il tipo
ideale di questa configurazione sociale e le caratteristiche psicologiche dei
suoi abitanti sono descritti perfettamente da Lucien Lévy-Bruhl nell’Ame
primitive. Per quest’autore il Noi della stirpe precede l’Io e il Tu
ed il genere è colto prima dei suoi individui. La tradizione domina
incontrastata (Lévy-Bruhl, 1990). Naturalmente una società del genere ha una
visione temporale che tende o si preoccupa delle origini delle cose e
conseguentemente è più portata a sviluppare una sorta di disposizione
metafisica e mistica. Al contrario una società “individualista” tenderà a
svalorizzare il passato (la tradizione e i morti) e ad essere più
relativamente materialista.
L’accento
sulla comunità che emerge
dalle prime pagine del romanzo di Pecchinenda sembra contrastare con la consolidata
idea secondo cui la società interattiva, innescata da Internet, favorisca la
creazione di legami deboli ed una forte tendenza all’individualismo – non
dobbiamo dimenticare, infatti, che il nostro Ricardo, appunto, nasce dapprima
come personaggio immaginario, poi come entità virtuale, in rete. E
proprio in rete nascono, vivono, si sviluppano quelle che Barry Wellman chiama “comunità
personalizzate”, incentrate su network io-centrati. E ciò rappresenterebbe
la privatizzazione della socialità, una relazione individualizzata con la
società, non già un attributo psicologico, bensì un modello specifico di
socialità.
Mentre
alcuni osservatori celebrano diversità, pluralità e scelta, invece
Robert Putnam teme la “cyberbalcanizzazione”, come modo di accentuare la
dissoluzione delle istituzioni sociali e il declino dell’impegno civico. Per
converso, Pierre Lévy, una sorta di traduttore del pensiero di Teilhard
de Chardin, che parlava, ebbro di fervore religioso, di Noosfera, vale a dire
di un cervello planetario, un’entità pensante cosmica, ritiene che le più
recenti tecnologie informatiche producano una nuova forma di umanesimo dove
si passa dal cogito cartesiano al cogitamus.
Lungi dal
fondere le intelligenze individuali in una sorta di magma indistinto,
l’intelligenza collettiva sarebbe un processo di crescita, differenziazione e
di mutuo rilancio della specificità. Eppure, leggendo Essere Ricardo
Montero, si evince con chiarezza l’idea secondo cui l’individuo non
aspira radicalmente alla libertà, sempre e comunque, dunque alla
singolarità e specificità. Si preferisce, qui, appartenere a qualcosa,
che, tuttavia, ha sempre a che fare con un cappello. Il senso di
autonomia è insito nel mestiere di scrittore: Pecchinenda, sulla scia dello
scrittore uruguayano Carlos Liscano, ritiene che la cosa importante per uno
scrittore non sia tanto ciò che scrive, bensì quella specie di delirio che, invadendoti,
ti porta a parlare da solo e che per certi versi costituisce un’ancora di
salvezza: "il delirio di credersi uno scrittore"
(p.17).
C’è chi
pretende di poter avere una vita normale e non pagare il prezzo dell’isolamento
che la scrittura richiede. Chi vuol fare lo scrittore, continua
Pecchinenda, deve innanzitutto inventarsi un altro, un individuo che si
assumerà il dovere di scrivere le sue opere. L’autore lamenta uno sfasamento
esistenziale dovuto al non voler accettare il fatto che uno scrittore, come
chiunque altro, si ritrova a vivere un’esistenza sociale assolutamente comune.
Ci si
ritrova dinanzi a due soluzioni divergenti: da una parte la follia,
dall’altra un’ironia senza scampo dovuta all’accettazione quasi
irrimediabile di un universo indipendente, quello della letteratura. Ed inoltre
ci si può lasciar trasportare nelle rassicuranti routines, oppure si può vivere
da artista, esistendo e manifestandosi soltanto nelle proprie opere: l’unica
via d’uscita è quella di barcamenarsi tra le due esistenze. Lo scrittore non
può, dunque, prescindere dalla sua condizione di individuo “normale”, le due
anime coabitano in un essere solo e sdoppiato.
Nondimeno,
la prima cosa da fare è inventarsi dei padri, i Maestri. Lungi dal mito
illuministico che ha inteso valorizzare l’affermazione di un uomo finalmente
libero dalle catene del passato e capace di scegliere – autonomamente,
appunto – il proprio destino, ogni scrittore dovrebbe avere almeno due Maestri,
giacché si sdoppia (p 26). Solo così è possibile intraprendere “un viaje
hacia la lucidez”, un viaggio verso la lucidità: raccontare l’esistenza,
prelevando con forza e determinazione le storie dall’oblìo e rivelandole
pazientemente ai lettori.
Dunque, la
letteratura, come la pittura, il teatro, il cinema in senso più generale, e
quella forma più intima che è l’artificio dell’auto-narrazione,
dell’auto-biografia, rappresentano degli autentici laboratori ed osservatori
per la comprensione dell’identità, di quell’identità che ha bisogno per
sopravvivere di recuperare l’oblìo e le proprie dimenticanze attraverso il
supporto dell’immaginazione e dell’arte (cfr. Ferro, 1989; Semprùn, 1986;
Pecchinenda 1999).
Ogni
biografia può essere considerata una sorta di intreccio tra la storia personale
di chi la racconta (che, come nel caso dell’autobiografia, può anche coincidere
con il raccontato) ed un insieme di memorie collettive, o anche di “miti”, che
costituiscono in qualche modo il tessuto, il quadro teorico di riferimento
all’interno del quale la biografia stessa acquista un senso (cfr.
Pecchinenda,1998). Per dirla con Wilhelm Schapp, “noi siamo sempre coinvolti
in storie”. Il filo conduttore della proposta fenomenologica di questo
studioso non è tanto la percezione husserliana della cosa, quanto il
prioritario sorgere di quest’ultima nelle storie, nelle narrazioni,
negli intrecci.
Diversamente
dal romanzo – come fa notare Ricoeur, in Soi même comme un Autre – che
si dispiega in un intrigo di un mondo proprio, conchiuso. Un asse connette
le storie e il mondo esterno, che è il luogo delle configurazioni che
Schapp chiama le choses-pour. La cosa-per deborda il campo degli
utensili: ciò che la caratterizza è il suo sorgere, emergere, proporsi insieme
con una storia, tutt’uno con una narrazione. Per Schapp, al di fuori delle storie,
la cosa (sia come utensile, sia come oggetto culturale) non sarebbe nulla. In
tal senso la percezione o l’allucinazione significa qualcosa solo in
quanto inserita in storie, in tessuti narrativi.
Pecchinenda
cita, nel corso del romanzo, Jorge Luis Borges, il quale sosteneva che,
a lungo andare, tutti gli esseri umani diventano memoria, e dunque finzione.
Alla lunga, insomma, tutto diventa memoria, e dunque si trasforma in
narrazione, in intrecci più o meno complessi di prodotti dell’immaginazione ai
quali accordiamo, a seconda dei casi, un maggiore o minore grado di “realtà”
(p. 62). Questa autobiografia immaginaria viene a confermare l’affermazione
capitale di Rimbaud: “Je est un autre”, nella quale l’identità si
è fatta alterità irrimediabile, distanza, separazione, divorzio” (cfr.
Boatto, 1997). A tal riguardo, Pecchinenda scrive: “esiste nell’uomo una
realtà ineludibile e che riguarda il doppio (Il sosia), che assume
sostanzialmente la forma di una vita segreta e inconfessabile, a meno che non
si faccia ricorso […] alla scrittura letteraria: la fuga da se stessi è
impossibile; un sosia ci accompagna sempre e comunque, inesorabile e
implacabile, in ogni luogo e in ogni momento, al fine di convincerci della sua
propria ineluttabilità” (p.31).
La presenza
di un doppio o di un sosia implicherebbe un tipo di società nella quale
fosse prevista la possibilità dell’esistenza di un Dio di fronte al
quale il personaggio in questione possa immaginare di possedere dentro di sé
un’anima, uno spirito, una coscienza o comunque una sorta di homunculus
con il quale dover in un modo o nell’altro confrontarsi, misurarsi,
legittimarsi (pp. 18-19). Una delle conseguenze più significative della
centralità di cui ancora oggi godono le concezioni “sostanzialiste” o
“essenzialiste” dell’identità è quella di accreditare una vera e propria
interpretazione ideologica del sé (cfr. Pecchinenda, 2008).
Tale ipotesi
presuppone che dentro di noi ci sia una speciale entità autocosciente la quale,
originariamente libera, decide il corso delle azioni del corpo in cui è
installata. Detto altrimenti, esisterebbe all’interno di ogni uomo un homunculus,
ovvero una sorta di essere in miniatura che compie, in scala ridotta e non
immediatamente manifesta, ciò che noi esteriorizziamo con i nostri
comportamenti. La storia delle interpretazioni di questo homunculus è
molto antica ed ha accompagnato il significato sociale attribuito alla nozione
di genio e di genialità ereditati dalla nostra cultura.
Ad esempio,
i personaggi omerici – come a suo tempo spiegava magistralmente Eric R. Dodds –
riconoscono chiaramente una distinzione tra azioni normali ed azioni
compiute in stato di ate. Questo ate, questo stato d’animo
che indica “l’annebbiarsi o lo smarrirsi temporaneo della coscienza normale”
viene nella cultura omerica attribuito ad una o più entità esterne. Più
precisamente, le azioni compiute in stato di ate vengono fatte risalire,
indifferentemente, “o alla propria moira, o alla volontà di un dio,
secondo che consideravano la cosa dal punto di vista soggettivo o oggettivo”
(Dodds, 1978, p.11). Ora questa moira, pur non potendo essere
considerata alla stregua di una vera e propria divinità personale, rappresenta
tuttavia un più che probabile antesignano del Genius, nonché delle
cosiddette teorie dell’homunculus.
Questo ate,
questo stato d’animo attanaglia Ricardo, quando si muove nella sua
amata Parigi. La dimensione dello spazio serve, qui, a riconoscere in quel
luogo specifico e socialmente riconosciuto quello che può essere considerato il
territorio del proprio Sé. Si tratta, in sostanza, di quell’aspetto della costruzione
sociale dell’identità attraverso la quale gli individui, e il nostro
Ricardo, tendono a collocare se stessi all’interno di uno spazio dotato di
un senso e un significato, in cui si possa vedere insomma realizzato il
cosiddetto bisogno di appartenenza locativa.
C’è poi
sullo sfondo la questione riguardante le origini argentine di Ricardo, e
di lì un ulteriore bisogno di appartenenza, nonché quella dimensione
locativa (Sciolla, 1983) attraverso la quale Ricardo si colloca all’interno
di un campo simbolico, definendo e tracciando i confini, più o meno mobili, che
delimitano i cosiddetti territori del Sé. In Essere Ricardo Montero
l'idea è preponderante rispetto alla forma, e la distinizione tra autore e
personaggio si fa labile, tanto da, talvolta, scomparire (come in Nieblas,
di don Miguel de Unamuno). Danielle Sallenave in Don des morts scrive: “Come
uscire da sé se non attraverso la letteratura, che mi mette al posto
dell’altro e mi apre alla comunità di un dolore condiviso?”, ed ancora: “è
nella letteratura che la vita ordinaria si riscatta e trasfigura”. L’idea non è
quella di preferire alle vite comuni quelle nobili – i libri non sono un lusso
riservato all’élite –, ma di portare un complemento indispensabile alla vita. E
certi luoghi – argomenta Tzvetan Todorov ne L’uomo spaesato – si
prestano a questo meglio di altri (1997).
I libri,
dunque, sono necessari. Prima di tutto perché ci mettono in contatto col passato (sono il
“dono dei morti”), ci trasmettono infatti un’eredità fatta di tutta
l’esperienza umana, ma, al contempo, ci permettono anche di inscrivere la
nostra piccola vita nella trama della storia mondiale. E d’altra parte,
lungi dall’essere una mera evasione, ci portano a cogliere l’ordine e il
progetto della vita, quindi a scoprirne il senso. I libri di narrativa e di
poesia sono in questo più efficaci degli altri: per essere compreso il
mondo deve essere affiancato da un doppio immaginario. E, da questo punto
di vista, Essere Ricardo Montero è efficacissimo.
Ad un certo
punto della narrazione irrompe il caso del piccione, che partecipa
dell’idea secondo cui gli insetti, le mosche o anche altri volatili, sono
sempre stati dei perfetti interpreti delle metafore – anche le più profonde –
attraverso le quali poter rappresentare l’irrompere dell’irrazionale,
talvolta così improvviso e spiazzante, nella tranquilla quotidianità
dell’esistenza umana (p. 66). Forte è l’eco de Il piccione di Patrick
Süskind che viene a sconquassare l’ordine metodico di un quotidiano che il
protagonista, Jonathan Noel, ha scelto di vivere: basta un piccolo essere, in
apparenza insignificante, che si limita a guardarlo immobile, a scombussolare
la sua esistenza, facendo crollare tutte le sue proprie certezze.
Del pari,
Ricardo combatte, invano, la presenza minacciosa e terrificante – e in quel
terrore risiede proprio la sua essenza sublime – del piccione che pare non
volerlo mai abbandonare; ritorna ancora, nel corso della narrazione, e della
vita, quel qualcosa di cui si è detto sopra, e che ha sempre a che fare
con un cappello, un evento improvviso e imprevedibile che squarcia il
presunto senso della routine. Un evento terrificante e minaccioso,
bello e sublime, immaginifico e reale, dolce e fastidioso, che incanta e
tormenta, inquieta e allieta, avversa e sostiene, da cui non si può
prescindere, e di cui si farebbe, al contempo, a meno. La vera dannazione è
che, una volta incontrato, del piccione, a prescindere dallo statuto
ontologico che gli si vuole riconoscere, letterario o reale, non ci si
libera più, nel sogno come nella realtà, onnipervasiva, presente, magis
magisque. Perturbante, appunto, e di nuovo. La vera sfida sarà squarciare
il velo dell’immaginazione, andare a scoprire cosa si nasconde sotto quel cappello,
perché “colui che è stato non può più non esser stato”. E sarà ancora.
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